In questo periodo si parla molto anche in Italia di self-publishing e di quali possibilità offra agli autori, esordienti e professionisti. Il fenomeno arriva dall’America e dall’Inghilterra, dove questa pratica della “scrittura indipendente” va avanti da diversi anni e genera un fatturato non indifferente, soprattutto per alcuni generi come la manualistica e la fiction erotica. Alcuni lo associano all’editoria a pagamento ma non potrebbe essere più diverso sia per modalità che per filosofia di fondo.

L’editoria a pagamento presuppone l’acquisto delle copie da parte dell’autore che si occupa poi della distribuzione porta-a-porta. Il self-publishing, invece, si fonda sulla stampa on demand: il libro viene stampato solo quando qualcuno lo ordina. Una cosa economicamente impensabile solo fino a qualche anno fa. Questo significa che l’autore non ha costi iniziali di nessun tipo e si può affidare alle librerie online per la distribuzione. Ce ne sono diverse ma, mi dispiace dirlo, la migliore è sicuramente Amazon e il suo sistema KDP (Kindle Direct Publishing) che assiste gli autori in ogni step con programmi e supporti davvero intuitivi.

Quando ho iniziato a interessarmi di self-publishing la mia intenzione era quella di salvare i miei libri che stavano andando al macero, cioè quelli che l’editore che li aveva pubblicati aveva deciso di eliminare dal catalogo perché vecchi e quindi con le vendite rallentate. Un libro al macero è un piccolo dolore per l’autore e un grande spreco per l’umanità, perciò pensai che il self-publishing potesse essere un’ottima soluzione per rimettere in circolazione le mie opere che altrimenti sarebbero andate perdute. Come direbbe Shrek, meglio fuori che dentro – al di là delle vendite.

Presa dall’entusiasmo, poi, mi venne in mente che in effetti il self-publishing potesse diventare una sorta di alternativa indipendente per pubblicare quei libri che erano rimasti nel cassetto per vari motivi, o addirittura per quelli che non avrei mai scritto perché sapevo in partenza che nessuno li avrebbe mai pubblicati. Libri scomodi o solo diversi, per intenderci, sperimentali, troppo lunghi, troppo corti per lo standard editoriale. E cominciai così a esplorare il mondo dell’autopubblicazione in vari modi.

Il primo esperimento lo feci durante il lockdown totale all’inizio del 2020. Non sapendo come sfruttare il tempo in eccesso, mi misi a scrivere un racconto al giorno prendendo ispirazione da ciò che stava accadendo intorno a me. Quattro settimane di racconti sono diventate una raccolta e devo dire che è stata forse l’esperienza letteraria più stimolante della mia carriera, per diversi motivi. Soprattutto, non pensare a un editore e alla pubblicazione mi ha dato un carica creativa inedita che mi ha permesso di esplorare stili e voci diverse, senza pensare al target o alla collocazione del libro su uno scaffale immaginario. Il mio obiettivo era tirar fuori dei racconti intensi su un periodo storicamente pazzesco e ho usato personaggi di età e condizioni molto diverse. Un mix di cui vado orgogliosa davvero.

Ma questa prima esperienza mi ha dato anche tutti gli strumenti per capire i limiti del self-publishing:

  1. La promozione è fondamentale e dipende dall’impegno dell’autore. Non basta mettere il libro online, c’è troppo caos perché diventi visibile da solo. Quindi bisogna essere molto creativi e attivi sui social.
  2. La stampa della copertina non è eccezionale. Spesso il taglio è diverso da quello impostato in grafica e la composizione generale risulta sbilanciata. Questo dà a volte un aspetto un po’ amatoriale al libro finale.
  3. Anche le librerie online sono in fondo dei social e bisogna ottenere recensioni affinché l’algoritmo faccia salire il libro in classifica. Il che richiede altro tempo e pazienza.
  4. Come in tutte le imprese, il fattore C conta. Essere al momento giusto con il libro giusto è fondamentale e il passaparola è un fenomeno assolutamente imprevedibile e incontrollabile.
  5. L’idea di uno pseudonimo, consigliata nei manuali di self-publishing americani, non credo che funzioni in Italia, dove sono principalmente le relazioni dirette dell’autore che favoriscono la diffusione delle sue opere. Lo pseudonimo rende strane anche le attività come video e dirette varie: se ci metti la faccia, lo pseudonimo è inutile perché alla fine tutti sanno chi sei.
  6. Il mercato italiano è ancora piccolo e la gente non si fida del self-publishing. La nostra nazione funziona molto con i “brand” e gli editori, gli autori, i libri non fanno eccezioni. Il brand rassicura e protegge dalla possibile fregatura. Quindi l’autore indipendente può generare sospetto e l’idea che sia solo uno sfigato che non è riuscito a farsi pubblicare da un editore serio.
  7. Bisogna investire. Nonostante la mia laurea in grafica, ho avuto bisogno del supporto di un cover artist, di un’impaginatore, ho dovuto lavorare con una correttrice di bozze e con una traduttrice per la versione inglese, e tutte queste cose devono essere fatte assolutamente in modo professionale e hanno dei costi.

Detto ciò, io ho continuato con il mio esperimento e ho messo in piedi questo sito che state navigando. Spero di guadagnare milioni con questa impresa? Onestamente, no. Ma quello che mi interessa, come autrice di una certa esperienza, è recuperare e valorizzare in qualche modo il mio ruolo artistico. Adoro lavorare con gli editori, che in Italia sono ancora degli artigiani fantastici, ma ho bisogno che la vendibilità di quello che scrivo non sia l’unico motivo per cui scrivo. Perciò mi sono ritagliata il mio spazio personale in cui esprimermi senza troppi condizionamenti.

Consiglio l’esperienza agli altri autori? Non credo che il self-publishing possa diventare il rifugio dell’autore esordiente che ha ricevuto rifiuti e allora fa da solo. Credo che, per chi è agli inizi, il lavoro di squadra offerto da una buona casa editrice sia una gavetta indispensabile. Si impara molto e si cresce molto.

Per gli autori affermati, invece, il self-publishing può essere una valida alternativa. Come ho detto, per recuperare testi che sono usciti fuori catalogo o per sperimentare liberamente o per creare collaborazioni e progetti altrimenti impossibili nell’editoria tradizionale. Davvero apre nuovi orizzonti letterari e costringe anche a fare i conti con i propri limiti senza la “stampella” eterna di un editor.

Insomma, c’è molto da esplorare e direi che questo è un nuovo “Far West” che può spaventare alcuni e stimolare altri. Quel che è abbastanza certo è che verrà preso sempre più seriamente nei prossimi anni, anche qui da noi.

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