Come tanti e tante della mia generazione, sono stata delusa dalla svolta che la Disney fece nel 1989 con la Sirenetta per salvarsi dal fallimento: puntò tutto sulle principesse che sono diventate nei decenni successivi dei veri e propri tormentoni. Rinunciando per sempre a quella ricerca stilistica che aveva caratterizzato film come Fantasia o Alice nel Paese delle Meraviglie e incentrando ogni progetto sulle potenzialità del merchandising.

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È storia nota che UP della Pixar sia stato un fallimento dal punto di vista commerciale, a fronte dei milioni di dollari portati dalle macchinine del ben più scialbo Cars. Una storia che fa sicuramente riflettere.

Perciò la vittoria agli Oscar del 2003 dello Studio Ghibli con La città incantata in un territorio da sempre dominato dalla Disney, ha rappresentato simbolicamente (almeno per me) un momento di passaggio da uno storytelling ripetitivo che vampirizza e stereotipizza la fiaba classica a un intero universo di storie che non sembrano seguire altre regole che quelle dell’immaginazione.

Tra tutti i personaggi di Miyazaki, sicuramente è Il mio vicino Totoro quello da cui cominciare per conoscere lo Studio Ghibli, e non solo perché ne è diventato anche il logo grazie al suo successo globale. Totoro rappresenta il trionfo della poetica legata all’infanzia ma allo stesso tempo è una grande lezione di marketing:

“Il mio vicino Totoro” ha segnato l’inizio del successo finanziario dello Studio Ghibli. Quando il film uscì, lo studio vendette i diritti per il merchandising e le vendite dei gadget e dei giocattoli di Totoro gli permisero di raggiungere la stabilità finanziaria. (Rayna Denison)

Stabilità finanziaria che lo studio Ghibli ha saggiamente usato per continuare a produrre capolavori universali, capaci di raggiungere un pubblico globale ma senza doversi piegare alle leggi del mercato globale, che impone troppo spesso un appiattimento dello storytelling e un'”americanizzazione” dei contenuti. Questa scelta aziendale sicuramente tiene in conto gli spettatori, piccoli e grandi, a cui è dovuto uno standard di cui il merchandising è solo una conseguenza e non la molla centrale.

Totoro, poi, è uscito nel 1988 ma non porta i segni del tempo, come del resto nessuno dei film di Miyazaki.

Mentre la Disney negli ultimi tempi si affanna a “svecchiare” personaggi obsoleti come le principesse, con operazioni discutibili, proprie della “woke culture”, che non mettono in discussione mai i valori di base di queste narrazioni (anch’essi decisamente obsoleti, ma di questo nessuno parla), le bambine e le ragazzine di Miyazaki resistono allo scorrere del tempo e hanno ancora molto da dire anche alle nuove generazioni.

Al punto che persino nella grande produzione teatrale della Royal Shakespeare Company, a Londra, non c’è stato bisogno di toccare la sceneggiatura di Totoro. Anzi, il regista ha dichiarato:

L’idea di creare uno spettacolo che seguisse lo stesso tempo e lo stesso ritmo del film d’animazione mi ha intrigato moltissimo. (…) Ed è stata una sfida perché non volevo deludere i fans. (Phelim McDermott)

Sasuke e Mei sul palco sono identiche alle loro alter ego animate. E, come tutti i personaggi di Miyazaki, femminili per lo più, sono emancipate senza bisogno di sbandierarlo. Autonome, coraggiose, attive e partecipi, sono ciò che mai nessuna principessa Disney sarà mai: tridimensionali.

È questo il nodo centrale di un paragone tra i due studi di animazione. Il fatto che il mondo Ghibli è inclusivo per sua stessa natura, da sempre, mentre il mondo Disney capitalizza sui sogni e sui desideri delle bambine e dei più piccoli in generale, confezionando ogni valore in modo che possa essere debitamente acquistato. E favorendo produzioni che tengano in conto questo elemento.

È questo il motivo per cui mi sento di dire che con lo Studio Ghibli i bambini sono al sicuro – rispettati come esseri umani e spettatori – mentre con la Disney rischiano ad ogni istante di essere irretiti come consumatori. E di restare intrappolati in quella fitta rete di miti banali – la bellezza, il successo, il potere – di cui lo storytelling disneyano è intriso.

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